I Sardi in Parlamento

La prima delegazione sarda avrebbe dovuto essere costituita da 24 deputati sui 180 totali, ma a causa della simultanea elezione degli stessi candidati in più collegi e per via di annullamenti e dimissioni il numero scese a 17. Furono eletti aristocratici che già avevano svolto funzioni pubbliche come Francesco Serra Boyl, intendente delle gabelle, Pasquale Tola, consigliere ministeriale e giudice di prima cognizione, Pietro Pes, generale dei Monti di soccorso, Giuseppe Luigi Passino e Antioco Spano; magistrati come Domenico Fois, Francesco Maria Serra, Giovanni Siotto Pintor e Stanislao Caboni, tutti consiglieri d'appello ai quali si aggiunse il consigliere di Cassazione Giovanni Antonio Tola; docenti universitari e avvocati come Giuseppe Siotto Pintor, Francesco Sulis, Carlo Baudi di Vesme, Bernardino Falqui-Pes e Cristoforo Mameli; uffi ciali come Francesco Guillot e Giovanni Maria Sussarello; infine anche sacerdoti come Vittorio Angius, Salvator Angelo De Castro e Francesco Cugia Delitala. A Cagliari Siotto Pintor, che si opponeva a Francesco Maria Serra, venne eletto al primo turno con 174 voti, ma preferì rappresentare il collegio di Nuoro II.

Le elezioni suppletive videro prevalere prima Pietro Martini e poi Giovanni Battista Tuveri che però non accettarono il mandato destinando il primo collegio cagliaritano a rimanere senza rappresentanza. A Sassari la partecipazione fu molto intensa, con oltre il 78% di votanti (757 su 976 iscritti). Tola, dopo un'elezione quasi plebiscitaria (229 voti), non riuscì a partecipare con continuità ai lavori parlamentari a causa di varie incompatibilità con le numerose cariche rivestite in quel periodo. Nella prima legislatura Sassari venne dunque rappresentata da Francesco Sulis e dal piemontese Carlo Baudi di Vesme. Molto più complesse furono le votazioni a Nuoro, dove si contesero l'elezione Siotto Pintor e Giorgio Asproni. In entrambi i collegi venne eletto Siotto Pintor, ma se nel secondo i votanti furono circa il 65% (218 su 333) per il primo non si conoscono né il numero dei votanti, né il nome degli avversari del Siotto, perché i dati non vennero mai trasmessi alla Camera.

Dopo una serie di irregolarità che portarono a ripetere le elezioni il 26 giugno, gli eletti furono Siotto Pintor e Asproni, ma anche stavolta le elezioni dovettero essere annullate perché i due candidati risultarono «ineleggibili» per questioni di incompatibilità:
Asproni in quanto penitenziere con «obbligo di residenza» e Siotto Pintor perché non aveva compiuto il triennio di inamovibilità alla data dello Statuto. A Oristano le votazioni si risolsero quasi senza intoppi con l'elezione di Salvator Angelo De Castro, Giovanni Antonio Tola e Antio co Spano. Alghero venne rappresentata solo dal canonico Cugia Delitala e dall'intendente Serra Boyl nonostante gli elettori si fossero espressi anche per l'avvocato Enrico Garau e per Cristoforo Mameli il quale scelse di rappresentare il più prestigioso terzo collegio cagliaritano.
A causa di annullamenti o elezioni plurime, alcuni collegi, come quelli di Isili, Lanusei e Tempio, rimasero inizialmente senza un rappresentante e solo in seguito a elezioni suppletive vennero eletti Angius e il barone Falqui-Pes. Nelle legislature successive, che si avvicendarono in un breve arco di tempo, ai nomi citati si aggiunsero anche quelli di Nicolò Ferracciu, Antioco Loru, Gavino Nino, Diego Marongiu, Domenico Melis, Gavino Scano, Giuseppe Sappa, Giuseppe Sanna Sanna, Gavino Fara, Giuseppe Michele Grixoni e altri per un totale di 77 deputati nel corso delle sette legislature preunitarie.

 

Una nuova classe dirigente

Se si analizza la condizione socio-professionale emerge una netta preponderanza di magistrati (19) e avvocati (19), rispetto ad altre professioni come medici o ingegneri (5); i liberi professionisti erano 24 mentre nobili e clero sommati arrivavano a 18 rappresentanti. Il ceto parlamentare sardo in età preunitaria era dunque una chiara espressione sia del mondo culturale e accademico sia della magistratura e del foro, con una significativa rappresentanza di nobiltà e clero che si rivelò molto attiva nel dibattito politico. L'alta concentrazione di giuristi nella delegazione sarda che per un decennio sedette in parlamento testimonia l'inevitabile persistenza di profili politici di epoca stamentaria. Allo stesso tempo personaggi come Giuseppe Sanna Sanna, Salvatore Rossi, Antonio Costa o Giovanni Antonio Sanna erano espressione di un mondo imprenditoriale che tentava timidamente di emergere e di affermarsi soprattutto nel settore agrario, commerciale e minerario in un contesto socioeconomico ancora influenzato e controllato dalla nobiltà ex feudale.

Volendo esprimere un giudizio generale sulle capacità politiche di quell'élite emergono dubbi non solo sul livello di consapevolezza politica e di competenze, ma anche di coerenza e incisività con cui la delegazione isolana riuscì a far emergere le problematiche sarde nel parla mento. Sono perplessità già insite in quei protagonisti, come sottolinea Asproni, stigmatizzando con mestizia e sarcasmo l'incompetenza dei singoli e l'incapacità di coniugare le forze per farsi comunità:

«L'odio del governo contro alla Sardegna trapela in ogni verbo e in ogni azione; ma noi Sardi siamo degni di altissimo disprezzo, perché assai male disimpegniamo il mandato che il popolo ci affidò!».

 
Il mito della nazione sarda

E' questo il momento in cui anche la Sardegna vede nascere nel suo seno il desiderio di appartenenza alla sua terra: nasce il mito della Nazione Sarda. L'espediente lo fecero le Carte d'Arborea. Il frate Cosimo Manca vendette alcune Carte all'Archivio del Giudicato arborense. Si trattava di documenti falsi, creati ad arte con buona probabilità da Salvator Angelo De Castro e Gavino Nino, risalenti all'XI e al XII secolo in volgare italiano che avrebbero voluto mostrare l'esistenza di un passato della Sardegna all'interno dell'ambito italiano. L'intento e l'interesse di un certo ambito culturale sardo, ma non solo, anche piemontese, era di preparare l'opinione pubblica alla fusione, creando un clima in cui l'isola individuasse nel passato (secondo criteri romantici tipici di quel periodo), le ragioni dell'appartenenza ad una più ampia nazione italiana, della quale il Piemonte si apprestava a diventare guida politica.

I falsari cercavano di rivendicare per la Sardegna un glorioso passato in campo artistico e letterario e di ribadire così la dignità di nazione sarda. I documenti, che suscitarono vivo interesse e trassero in inganno numerosi esponenti sardi anche di grande importanza come Asproni, crearono in realtà il clima che si voleva contribuendo in maniera decisiva alla fusione. Ciononostante una parte seppur ridotta della classe politica e culturale sarda, che faceva capo a Giovan Battisita Tuveri, rimase sempre scettica ritenendo che la Sardegna dovesse pensare ai problemi interni, ai problemi della piccola patria, e non ad una dimensione all'interno di una patria più grande.
I documenti vennero dimostrati falsi da parte della Commissione dell'Accademia delle scienze di Berlino composta da filologi, storici, paleografi come Mommsen, Haput, Jaffè, Tobler, Dove. A capire che si trattava di falsi in modo particolare fu il ritrovamento del registro dal quale erano stati sottratti i fogli sui quali i falsari composero i testi in lingua volgare.

 

La Sardegna al voto

Le prime elezioni parlamentari del 17 e 18 aprile 1848 consegnarono all'isola un piccolo primato anticipando di dieci giorni l'appuntamento elettorale dei restanti territori dello Stato sabaudo. Per evitare che l'altissimo tasso di analfabetismo restringesse in modo abnorme il già esiguo corpo elettorale, in deroga alle disposizioni generali, nell'isola vennero ammessi al voto anche gli analfabeti in possesso di un determinato reddito e impegnati socialmente come membri della Reale Società Agraria di Cagliari o della Camera d'agricoltura, di commercio e di arti di Sassari, o ancora funzionari di amministrazioni comunali, militari di alto grado in pensione e più in generale appartenenti alla borghesia urbana.

Con questo artificio ottennero il diritto al voto quasi 8000 persone, oltre duemila nei cinque collegi di Cagliari, 976 nei tre di Sassari e qualche centinaio in ciascuno dei restanti 16 collegi. La Sardegna si presentava a questo appuntamento con pesanti condizioni di arretratezza che non poterono non incidere sul voto. Gli analfabeti costituivano oltre il 90% della popolazione e la maggior parte votò facendo compilare il proprio bollettino a una persona di fiducia. La repentina trasformazione istituzionale determinatasi nell'arco di un mese con la concessione dello Statuto e il bando elettorale, sommata alla fase di transizione per l'assimilazione legislativa seguita alla «fusione», non consentì la formazione di raggruppamenti politici organizzati attorno a un programma elettorale ben definito. Lo stesso sistema elettorale uninominale a doppio turno con formula maggioritaria premiò i personalismi più che i programmi e le opinioni. Risultarono eletti molti personaggi che avevano ricoperto cariche pubbliche durante l'assolutismo; tra loro alti burocrati, magistrati, ufficiali dell'esercito e naturalmente rappresentanti dei ceti nobiliari.

 
Inizio del XVIII secolo

Il passaggio dell'isola nel 1720 ai Savoia portò alla dinastia il titolo regio assieme alla possibilità di sfruttarne le tutte le risorse e da quel momento fu il governo di Torino a prendere tutte le decisioni concernenti la Sardegna: decisioni politiche, culturali, economiche. Un regno, dunque, privo di sovranità e con nessuna rilevanza nei rapporti internazionali tra potenze. 

Ai procuratori era affidato il compito di amministrare utilizzando tutti gli strumenti della pressione della rendita feudale essendo a Torino il potere centrale e in Spagna i titolari dei feudi. Non a caso il senso più profondo della «sarda rivoluzione» consistette nel legame tra sollevazione urbana e moti antifeudali nelle campagne: una vera e propria interazione città-campagna che risultò sconfitta col fallimento della marcia dell'Angioy verso Cagliari. A sconfiggere l'Alternos fu il progressivo costituirsi di una saldatura tra gli interessi della nascente borghesia cittadina e l'aristocrazia feudale isolana contro i ceti subalterni della città e della campagna.

La definitiva e tanto attesa scomparsa, di quel fossile istituzionale che era il Regnum Sardiniae giunse nel 1847. In quell'anno, infatti, i giornali diffondevano nell'isola notizie sulla Lega doganale italiana e sulle riforme attuate in Piemonte, eventi di cui si parlava soprattutto nelle due città di Cagliari e Sassari, dove si trovava la maggior parte degli alfabeti. Nello stesso anno i consiglieri di Cagliari, stabilirono di inviare una deputazione al re, composta dalle prime voci del "vecchio parlamento", per chiedere la "fusione con gli stati di terraferma". La delegazione isolana fu ricevuta con tutti gli onori ed ottenne subito dal re quanto chiedeva, il 30 novembre 1847 è decretata con regio biglietto la perfetta fusione con gli stati di terraferma.

Le prime elezioni parlamentari del 17 e 18 aprile 1848 consegnarono all'isola un piccolo primato anticipando di dieci giorni l'appuntamento elettorale dei restanti territori dello Stato sabaudo. In quegli anni in cui la Sardegna vive prima del resto della penisola l'esperienza democratica emergono tutte le storture e i limiti di una classe politica che, una volta ottenute le cariche politiche a cui ambiva, punta solo al perseguimento dei propri interessi il più delle volte allineandosi alla politica governativa. Ad essere presa di mira dall'opinione pubblica è in particolare la «Camarilla», un gruppo di uomini politici prevalentemente conservatori e appartenenti all'area della destra che viveva di clientelismo e di affari riuscendo a gestire quello che all'epoca non era ancora stato individuato come un «conflitto di interessi».

 

 La Sardegna ai Savoia

Dal 1799 Carlo Emanuele IV di Savoia (sovrano dal 1796) giunge a Cagliari abbandonando il Piemonte invaso dalle truppe Francesi. In questa occasione, vengono decorati coloro che durante gli anni della Rivoluzione rimasero fedeli ai Savoia, tra questi spiccano i nomi di Giacomo Pes di Villamarina e Stefano Manca di Thiesi che ottengono le massime cariche politiche. Viene inaugurata una politica repressiva e creato un clima di restaurazione. 

I segni di riconoscimento di una politica reazionaria si possono leggere nelle cariche: il duca d'Aosta (futuro sovrano Emanuele I dal 1802 al 1821) viene nominato Governatore del Capo di Cagliari; In assenza del sovrano Vittorio Emanuele I che aveva cercato rifugio a Napoli, viene nominato come Vicerè tra il 1799 e il 1806 Carlo Felice, deciso assertore di una politica assolutistica; Reggente la Reale Cancelleria fino al 1802 sarà Joseph de Maistre ideologo del conservatorismo e della reazione. 

A questo si aggiunse un raddoppiato carico fiscale tra cui lo spillatico, tassa che gli Stamenti dovevano alla Regina Maria Teresa.

Le riforme boginiane dell'700 iniziano a dare alcuni timidi risultati con la presenza sul territorio di alcune aziende agrarie disponibili e interessate ad un investimento e ad un'innovazione nelle colture. Nel 1804 nasce la Reale Società Agraria ed economica di Cagliari che aveva il compito di promuovere il dibattito culturale intorno allo sviluppo dell'agricoltura e all'allevamento ed è l'ambito entro il quale nasce nel 1806 l'editto della Nobiltà dell'ulivo.

Sarebbe stato assegnato il titolo di Cavaliere a coloro che avessero recintato una quantità necessaria di terreni e avessero garantito un'ampia coltivazione di ulivi. Si tratta di un provvedimento di carattere sperimentale. Le famiglie che controllavano queste aziende erano esponenti dell'aristocrazia isolana, che lasciati alle spalle i principi rivendicativi della fine del '700 si era allineata ai criteri dell'assolutismo sabaudo che intendeva assecondare soprattutto nell'ambito della realizzazione di una diffusa proprietà privata o "perfetta" .

 
Le riforme

La legge delle chiudende e l'abolizione del feudalesimo
Uno dei primi momenti di approdo di questa politica è rappresentato dalla Legge delle Chiudende (che seguiva la famosa Linea Gemelli), del 6 ottobre 1820 che concedeva a chiunque di chiudere i terreni di sua proprietà attraverso sistema che seppur regolamentati vennero realizzati in maniera indiscriminata, andando a colpire in modo particolare il settore della pastorizia. Le reazioni furono violente ed interessarono tutto il decennio 1820-1830 e negli anni 1832-33 vennero effettuate dall'esercito numerosi arresti cui seguirono condanne a morte per coloro che avevano sostenuto i moti antichiudende. Ad essere intaccata non era stato solo l'aspetto geografico e morfologico del territorio ma anche quello culturale, dal momento che venivano stravolti gli usi agrari tradizionali che erano noti, conosciuti e praticati da secoli e che produrranno come reazione a lunga distanza la richiesta di un ritorno proprio a quegli usi (il moto di su connottu "il conosciuto" del 1868 a Nuoro contro la decisione del Consiglio Comunale di ripartire i terreni che ancora erano di uso comune).

L'editto delle Chiudende lascia ad ogni modo indenne il sistema feudale e si fa strada la consapevolezza che la nascita di una diffusa proprietà privata non sarà possibile all'interno della giurisdizione feudale. La soluzione che viene proposta è quella di separare i due problemi: da una parte l'esercizio da parte dei baroni feudali della giurisdizione sui feudi e dall'altra la questione della rendita dei terreni attraverso l'imposizione di tributi. Ai feudatari è garantito un risarcimento che viene ottenuto attraverso la procedura del riscatto. Viene creata una Commissione regia incaricata di stabilire le rendite effettive di ogni feudo mentre i villaggi non vengono ammessi alle trattative tra il feudatario e la delegazione. Il primo sarà il Marchese d'Arcais. Tutta l'operazione verrà realizzata tra il 1838 e il 1840. In realtà si largheggiò molto nella definizione della rendita da attribuire a molti feudi, così da rendere indolore e conveniente per i feudatari vendere i propri feudi. Le somme pagate ai feudatari vennero addebitate ai Comuni.

Da quel momento in poi le terre in Sardegna vennero suddivise in private, Comunali e demaniali; i terreni comunali sarebbero stati dati a coloro che nel Comune non possedevano terreni con l'obbligo di coltivarli; le terre demaniali dovevano essere assegnati alle comunità e a coloro che ne avessero fatta richiesta tramite asta pubblica.
Nel 1807 nascono le prefetture. L'obbiettivo che si voleva conseguire con l'istituzione delle prefetture era di dare un ordine al caos esistente nell'amministrazione delle giustizia che era frantumata in molteplici sedi di giudizio (Reale Governazione, R. Udienza, Curie baronali, vari tribunali specifici). Con l'istituzione delle Prefetture il territorio isolano viene suddiviso in 15 province.

Ad ogni prefetto spetta: l'imposizione e la riscossione dei tributi, le attività economiche, il controllo di legittimità delle delibere delle amministrazioni comunali.
Legato alla formazione delle prefetture è il riordino e l'unificazione della legislazione attraverso le Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna (Codice Feliciano) del 1827, che si sostituisce alla Carta de Logu. Non si tratta di nuove leggi ma un riordino di quelle esistenti. Tra le modifiche importanti l'abolizione del guidatico e dell'incarica.

 

Carlo Felice

Vittorio Emanuele I abdicò in favore di Carlo Felice nel 1821 e col nuovo sovrano soffia anche una nuova aria riformistica. Sintomatico è l'interesse di Carlo Felice alla viabilità, infatti nel 1821 affidata all'ingegner Carbonazzi la realizzazione di una rete stradale che collegasse Cagliari a Sassari. Si è ancora in una fase in cui l'isola vive un esistenza parallela a quella degli Stati di Terraferma, e ciò sarebbe testimoniato dal fatto che praticamente nessuna eco dei moti piemontesi del 1821 giunse nell'isola. Erano moti di tipo costituzionale e in Sardegna esisteva già una costituzione.

Successivo all'abolizione del feudalesimo con una Carta Reale del 26 febbraio 1839 veniva stabilita l'alienazione delle terre ademprivili (cioè le terre ex feudali sulle quali gravavano ancora gli usi collettivi o ademprivi delle popolazioni) e la suddivisione tra gli abitanti delle terre che erano invece riconosciute come proprie dai comuni. Da un lato stavano coloro che ambivano ad accrescere le proprietà private inglobando i terreni e definivano consuetudini arcaiche quelle degli ademprivi (tra questi anche Carlo cattaneo che però vedeva la crescita dell'agricoltura in una dimensione che era quella della Lombardia). La problematica degli ademprivi si trascinò attraverso i decenni giungendo ad un capitolo importante negli anni '60 in particolare nel 1863 quando una legge assegnava 200.000 ettari di terreni ademprivile come garanzia di un prestito per opere di carattere infrastrutturale, in particolare gli ettari di terreno vennero ceduti ad una società londinese che si era impegnata nella costruzione di una parte delle linee ferroviarie sarde.

Nel 1865 venne approvata la legge che aboliva tutti i diritti ademprivili e i terreni venivano assegnati ai Comuni con l'obbligo di venderli entro tre anni. Il vero obbiettivo era quello di costringere i Comuni a vendere, anche sottocosto, visto che le procedure da attivare per la vendita erano molto complesse e i Comuni non potevano avere i mezzi per gestirle.
Per giungere ad una completa unificazione con il Piemonte occorre il momento storico adatto, che si presenterà alla fine degli anni '40 in pieno risorgimento con la diffusione degli ideali patriottici e liberali e l'eco delle riforme che il Piemonte stava attuando nei territori di Terraferma.