Il Risorgimento

Come per la Francia la Rivoluzione del 1789, il Risorgimento segna, nell'idea generale, la nascita dell'Italia contemporanea. Il risorgimento italiano, periodo di transizione e di sconvolgimenti politici e sociali corrispondenti ai movimenti principali e ai grandi eventi che hanno permesso all'Italia di realizzare nel XIX secolo la sua unificazione, è stato al centro di numerosi dibattiti costantemente ravvivati dall'attualità politica e storiografica. Nel 1850, dopo le rivoluzioni del 1848 e la prima guerra d'indipendenza, 1'Italia è ancora quella delineata dal congresso di Vienna del 1815: un insieme di otto stati, fondata sul principio patrimoniale di legittimità dinastica contraddistinta al Nord (Lombardo-Veneto) e al Centro (ducati vassalli di Vienna) dalla presenza dell'Austria; nel 1861, dopo la seconda guerra d'indipendenza e la conquista del Regno delle Due Sicilie, il Regno d'Italia è ufficialmente proclamato.

 

Il nuovo regno ha per capitale Torino, ex capitale del Regno di Sardegna, e come sovrano il rappresentante di casa Savoia, Vittorio Emanuele II; per il completamento dell'opera mancano Roma col Lazio e il Veneto. Nel 1866 la terza guerra d'indipendenza condotta contro l'Austria permette al Regno d'Italia di riconquistare il Veneto, mentre nel 1870 Roma e il Lazio cessano di essere domini temporali del Papa. Roma è ufficialmente proclamata capitale d'Italia nel 1871 e Vittorio Emanuele II regna sulla totalità degli abitanti della penisola, a eccezione del Trentino e dell'Alto Adige rimasti agli austriaci. In realtà, l’unificazione territoriale che non termina prima del 1871, non segue parallelamente quella amministrativa e politica che parte già dal 1861. Il vero cambiamento politico-amministrativo comincia verso il 1859-1860 con l'organizzazione di plebisciti regionali per l'annessione delle province centrali e meridionali, mentre la tappa essenziale dell'unificazione amministrativa e giuridica dell'Italia data dal 1865 (emanazione della legislazione amministrativa e dei principali codici), quando il Regno d'Italia non comprendeva ancora né il Veneto né il Lazio.

 

L’unificazione amministrativa e giuridica, dunque, è stata fatta in base alla generalizzazione degli usi e delle normative piemontesi. La tradizione vede nell'opera di padre Bettinelli Il Risorgimento dell'Italia dopo il Mille, pubblicato nel 1775, il primo documento in cui il vocabolo è esplicitamente applicato alla storia italiana. Bisogna però arrivare alla fine del Settecento e agli scritti di Vittorio Alfieri (1749-1803) per vedere riassumere nella parola "risorgimento" il senso di "rinascimento nazionale" e l'idea di liberazione del suolo italiano dalla presenza straniera. L’inserimento ufficiale del termine nella sfera pubblica data dal 17 novembre 1847 con la pubblicazione a Torino del primo numero del giornale di Cesare Balbo (1789-1853) e Camillo Benso di Cavour (1810-1861) "Il Risorgimento", il cui programma mette esplicitamente sullo stesso piano l'indipendenza dell'Italia e l'unione politica ed economica di tutti gli stati della penisola orientati ad accettare l'idea del progresso. Ma la fortuna del termine ha di gran lunga superato i limiti del dibattito ideologico della metà dell'Ottocento per affermarsi anche alla fine del secolo.

Sono così possibili due ripartizioni cronologiche:
- una periodizzazione che parta dagli sviluppi del congresso di Vienna (1815) e che per alcuni storici si concluderebbe verso il 1860-1861 con l'esordio ufficiale del Regno d'Italia, mentre per altri tra il 1870 e il 1871 con la conquista di Roma e la sua proclamazione a capitale;
- e un'altra più evenemenziale e territoriale che vada dal 1848 al 1870 escludendo una parte ragguardevole del periodo della Restaurazione.

 

Questa ripartizione evidenzierebbe soprattutto le principali tappe militari dell'unità, vuoi le tre guerre d'indipendenza (1848-1849, 1859 e 1866), vuoi la conquista di Roma e del Lazio nel 1870. Le date coincidono perfettamente con il periodo della costruzione del Regno d'Italia, operazione definita nel 1943 dallo storico Salvatorelli «un'ingenua rappresentazione del Risorgimento» al servizio degli interessi di casa Savoia. Il 1815, con l'instaurazione in Europa di un nuovo ordine politico, e il 1848, con la prima guerra d'indipendenza, sono delimitazioni cronologiche di comodo, perfettamente aderenti a una visione politico-militare del processo di unificazione; ma si sa bene, in compenso, quanto siano difficili da determinare le tappe di una storia culturale e ideologica che si vuole globale.

 

In un senso più ampio, la seconda metà del Settecento (1750-1790), con l'apogeo delle riforme negli stati della penisola, è generalmente considerata l'inizio del Risorgimento; allo stesso tempo si è tenuto particolarmente conto della fine di quel secolo per quanto riguarda la storia delle origini intellettuali dell'unità. Cosa che porta direttamente a evidenziare i vettori culturali di passaggio tra i Lumi e le riforme, legati da una parte agli stati d'ancien régime segnati dall'esperienza del dispotismo illuminato, e dall'altra all'elaborazione di un programma politico che contesti l'ancien régime in nome di un liberalismo unitario e patriottico.

Questa suddivisione cronologica rimanda alla questione più ampia dell'influenza francese sulla formazione dell'unità italiana; l'arrivo delle truppe rivoluzionarie nel 1796, il triennio dell'occupazione francese (1797-1799) e l'Italia napoleonica sono altrettanti punti di partenza del Risorgimento oggi privilegiati dagli storici italiani".

 
Il Parlamento

Lo Statuto albertino, considerato spesso dalla storiografia come il compimento del processo riformista avviato da Carlo Alberto nell’ottobre del 1847, fu emanato il 4 marzo 1848 e divenne, il 17 marzo 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia, la Carta fondamentale dell’Italia unita. Esso segna un profondo mutamento di indirizzo nell’ordinamento dello Stato sabaudo.
La politica riformatrice, perseguita da Carlo Alberto, escludeva la creazione di istituzioni rappresentative e, pur introducendo alcuni elementi che temperavano l’assetto rigidamente assolutistico del regno, mirava a non intaccare in alcun modo l’autorità monarchica. Come le altre Carte costituzionali emanate negli Stati italiani nel 1848, lo Statuto albertino aveva il carattere di carta octroyée, cioè concessa dal sovrano. La scelta costituzionale si impose non come il naturale compimento delle riforme precedenti ma come l’unico rimedio politico per evitare l’evolversi della situazione in senso democratico e rivoluzionario. Definito, nel Preambolo autografo dello stesso Carlo Alberto, «Legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della Monarchia», lo Statuto si ispira alla Carta francese del 1814 nelle sue versioni modificate in Francia nel 1830 e in Belgio nel 1831. Il sovrano, infatti, concedendo lo Statuto, aveva voluto dar vita ad una sorta di monarchia limitata, nella quale la Corona non fosse solo un elemento formale, ma, investita della titolarità dell’esecutivo, partecipasse in modo determinante al potere legislativo e a quello giudiziario, andando ben oltre i limiti di un “potere neutro”. In tale contesto istituzionale tutti gli altri poteri e tutti gli altri organi erano collocati in una posizione subalterna o, quanto meno, inferiore a quella del sovrano.

 

Al Parlamento, diviso in due rami, il Senato vitalizio di nomina regia e la Camera dei deputati elettiva, spettava di esercitare con il Re il potere legislativo, di approvare i bilanci e i tributi, di organizzare le province e i comuni, di regolare la leva militare. Lo Statuto fu la sola Carta costituzionale rimasta in vigore dopo l’ondata reazionaria seguita al fallimento della rivoluzione del 1848. Nonostante le resistenze del partito di corte e degli ambienti conservatori legati alla tradizionale visione del potere monarchico, quasi subito i rapporti tra Corona e Camere vennero modificandosi e determinarono il passaggio della monarchia sabauda dalla forma rigidamente costituzionale a quella parlamentare. Nella prassi, infatti, venne instaurandosi un rapporto di fiducia tra Governo e Parlamento: il Ministero poteva rimanere in carica solo se confermato dal voto delle assemblee legislative, mentre il sovrano nella scelta dei suoi ministri si adeguava alla volontà delle Camere e, in particolare, di quella elettiva. Questa prassi si consolidò e si codificò con una certa gradualità. Il primo Ministero costituzionale, presieduto da Balbo, nominato il 16 marzo 1848, si limitò ad applicare le norme dello Statuto, cioè a procedere alla convocazione delle due Camere pubblicando la legge elettorale. Il Ministero si dimise in conseguenza del voto parlamentare che respingeva l’emendamento governativo al disegno di legge per l’unione della Lombardia e delle quattro province venete liberate nel corso della prima guerra d’indipendenza al Piemonte. Tuttavia la crisi che ne derivò non ebbe la natura di crisi parlamentare, così come non ebbero tale natura le crisi successive che accompagnarono le dimissioni dei ministeri Casati, Alfieri e Perrone. I tragici eventi della guerra obbligarono il Ministero Casati a ricorrere ai pieni poteri e ciò modificò i rapporti tra Corona, Camere, limitate nelle loro funzioni, e Governo investito di competenze e di un ruolo eccezionale. L’apparente carattere parlamentare dei Ministeri Gioberti e Chiodo, per la maggioranza vastissima che li aveva imposti durante la seconda e più tragica fase del conflitto, non alterò nella sostanza la natura costituzionale del regime statutario. La disfatta di Novara e la conseguente abdicazione di Carlo Alberto in favore di Vittorio Emanuele II non segnarono ancora la fine di quel periodo dominato dalla ricerca di un equilibrio tra i poteri dello Stato, che aveva caratterizzato l’inizio della vita costituzionale in Piemonte. Il Ministero D’Azeglio preparò il passaggio al regime parlamentare. Merito grandissimo del D’Azeglio, nel suo moderatismo e nella rigida affermazione della superiorità del costituzionalismo statutario, fu quello di aver difeso gli istituti rappresentativi nelle difficili circostanze nelle quali si trovava lo Stato subalpino.

 

Il proclama di Moncalieri del 20 novembre 1849, firmato da Vittorio Emanuele II ma redatto da D’Azeglio, facilitò l’elezione di una Camera dei deputati disposta a collaborare con la linea del Governo. Successivamente fu avviata un’incisiva politica di riforme. L’approvazione a larga maggioranza delle leggi Siccardi, che abolivano il foro ecclesiastico e che definivano i rapporti tra Stato e Chiesa, segna una svolta fondamentale. La vasta maggioranza che nelle due Camere aveva sostenuto l’azione del Governo era ormai destinata a dare una base diversa all’esecutivo, i cui ministri non potranno più sottrarsi alla convalida del loro operato in Parlamento. Così si dava l’avvio al regime parlamentare che caratterizzerà la vita politica nei decenni successivi e che avrà in Cavour il suo grande artefice. Già nel 1848 Cavour aveva sostenuto, in un articolo del 10 marzo su “Il Risorgimento”, la tesi di un rapporto tra prerogativa parlamentare e prerogativa regia progressivamente destinato ad evolversi a favore della prima. Nel considerare centrale il ruolo del Parlamento, Cavour non era isolato. Larghi settori dell’opinione liberale condividevano le sue idee, come Carlo Bon Compagni nel suo libretto Della monarchia rappresentativa e Pietro Peverelli nei Commenti intorno allo Statuto del regno di Sardegna. Subentrato al D’Azeglio, Cavour divenne il sostenitore più deciso di una linea tendente a fare del Parlamento, e in particolare, della Camera elettiva, il centro della vita politica e istituzionale, in polemica con gli ambienti conservatori rappresentati da Cesare Balbo, sostenitore della forma costituzionale pura. Nel volume Della monarchia rappresentativa in Italia, il Balbo vedeva nella Corona il fulcro attivo e propulsivo dell’intero ordinamento e sosteneva la necessità della partecipazione dell’istituto monarchico all’attività delle Camere. Cavour rivendicava, invece, al Parlamento il massimo potere e la piena indipendenza dalla monarchia stessa, anche in vista delle modifiche che, su iniziativa della Camera elettiva, dovevano essere introdotte nell’ordinamento posto in essere dallo Statuto. L’organizzazione della Camera alta aveva suscitato già subito dopo l’emanazione dello Statuto molte perplessità. Il 27 maggio 1848 Cavour, in un articolo pubblicato ne “Il Risorgimento”, assumeva una posizione critica nei confronti del sistema di reclutamento dei senatori. Egli si pronunciava a favore di un Senato elettivo che esercitasse una funzione di equilibrio rispetto alla Camera elettiva, sul modello della Costituzione belga.

 

La nomina di Cavour alla Presidenza del Consiglio, nel 1852, assunse il significato di una svolta decisiva. Anche se la crisi che aveva determinato la caduta del Ministero D’Azeglio era stata ancora di natura extraparlamentare, non essendo stata determinata da un palese voto di sfiducia, tuttavia nella scelta del nuovo Presidente da parte del Re si rivelava la necessità di affidare la direzione del nuovo Governo al capo della maggioranza parlamentare nella Camera dei deputati. La presenza di una larga maggioranza omogenea appariva sempre più necessaria al conseguimento degli obiettivi di rinnovamento civile e politico propri del liberalismo nazionale. Da qui la nascita dell’intesa, il “connubio”, che aggregava un ampio Centro liberale e riformista, formato dalla Destra moderata e dalla Sinistra riformista, escludendo la Destra conservatrice e la Sinistra rivoluzionaria. Cementata dall’elezione di Rattazzi a Presidente della Camera (11 maggio 1852), l’intesa con il Centro-Sinistra diede a Cavour la possibilità di ottenere la Presidenza del Consiglio, che mantenne dal 1852 fino alla morte, con la breve parentesi del Governo La Marmora (luglio 1859-gennaio 1860). Il Re lo considerava formalmente come un suo ministro, ma Cavour si comportò come il capo di un governo parlamentare, responsabile di fronte alle Camere e operante solo in virtù di un rapporto di fiducia che ne legittimava l’attività.

 

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