Il mito della nazione sarda

E' questo il momento in cui anche la Sardegna vede nascere nel suo seno il desiderio di appartenenza alla sua terra: nasce il mito della Nazione Sarda. L'espediente lo fecero le Carte d'Arborea. Il frate Cosimo Manca vendette alcune Carte all'Archivio del Giudicato arborense. Si trattava di documenti falsi, creati ad arte con buona probabilità da Salvator Angelo De Castro e Gavino Nino, risalenti all'XI e al XII secolo in volgare italiano che avrebbero voluto mostrare l'esistenza di un passato della Sardegna all'interno dell'ambito italiano. L'intento e l'interesse di un certo ambito culturale sardo, ma non solo, anche piemontese, era di preparare l'opinione pubblica alla fusione, creando un clima in cui l'isola individuasse nel passato (secondo criteri romantici tipici di quel periodo), le ragioni dell'appartenenza ad una più ampia nazione italiana, della quale il Piemonte si apprestava a diventare guida politica.

I falsari cercavano di rivendicare per la Sardegna un glorioso passato in campo artistico e letterario e di ribadire così la dignità di nazione sarda. I documenti, che suscitarono vivo interesse e trassero in inganno numerosi esponenti sardi anche di grande importanza come Asproni, crearono in realtà il clima che si voleva contribuendo in maniera decisiva alla fusione. Ciononostante una parte seppur ridotta della classe politica e culturale sarda, che faceva capo a Giovan Battisita Tuveri, rimase sempre scettica ritenendo che la Sardegna dovesse pensare ai problemi interni, ai problemi della piccola patria, e non ad una dimensione all'interno di una patria più grande.
I documenti vennero dimostrati falsi da parte della Commissione dell'Accademia delle scienze di Berlino composta da filologi, storici, paleografi come Mommsen, Haput, Jaffè, Tobler, Dove. A capire che si trattava di falsi in modo particolare fu il ritrovamento del registro dal quale erano stati sottratti i fogli sui quali i falsari composero i testi in lingua volgare.

 

La Sardegna al voto

Le prime elezioni parlamentari del 17 e 18 aprile 1848 consegnarono all'isola un piccolo primato anticipando di dieci giorni l'appuntamento elettorale dei restanti territori dello Stato sabaudo. Per evitare che l'altissimo tasso di analfabetismo restringesse in modo abnorme il già esiguo corpo elettorale, in deroga alle disposizioni generali, nell'isola vennero ammessi al voto anche gli analfabeti in possesso di un determinato reddito e impegnati socialmente come membri della Reale Società Agraria di Cagliari o della Camera d'agricoltura, di commercio e di arti di Sassari, o ancora funzionari di amministrazioni comunali, militari di alto grado in pensione e più in generale appartenenti alla borghesia urbana.

Con questo artificio ottennero il diritto al voto quasi 8000 persone, oltre duemila nei cinque collegi di Cagliari, 976 nei tre di Sassari e qualche centinaio in ciascuno dei restanti 16 collegi. La Sardegna si presentava a questo appuntamento con pesanti condizioni di arretratezza che non poterono non incidere sul voto. Gli analfabeti costituivano oltre il 90% della popolazione e la maggior parte votò facendo compilare il proprio bollettino a una persona di fiducia. La repentina trasformazione istituzionale determinatasi nell'arco di un mese con la concessione dello Statuto e il bando elettorale, sommata alla fase di transizione per l'assimilazione legislativa seguita alla «fusione», non consentì la formazione di raggruppamenti politici organizzati attorno a un programma elettorale ben definito. Lo stesso sistema elettorale uninominale a doppio turno con formula maggioritaria premiò i personalismi più che i programmi e le opinioni. Risultarono eletti molti personaggi che avevano ricoperto cariche pubbliche durante l'assolutismo; tra loro alti burocrati, magistrati, ufficiali dell'esercito e naturalmente rappresentanti dei ceti nobiliari.