Le riforme

La legge delle chiudende e l'abolizione del feudalesimo
Uno dei primi momenti di approdo di questa politica è rappresentato dalla Legge delle Chiudende (che seguiva la famosa Linea Gemelli), del 6 ottobre 1820 che concedeva a chiunque di chiudere i terreni di sua proprietà attraverso sistema che seppur regolamentati vennero realizzati in maniera indiscriminata, andando a colpire in modo particolare il settore della pastorizia. Le reazioni furono violente ed interessarono tutto il decennio 1820-1830 e negli anni 1832-33 vennero effettuate dall'esercito numerosi arresti cui seguirono condanne a morte per coloro che avevano sostenuto i moti antichiudende. Ad essere intaccata non era stato solo l'aspetto geografico e morfologico del territorio ma anche quello culturale, dal momento che venivano stravolti gli usi agrari tradizionali che erano noti, conosciuti e praticati da secoli e che produrranno come reazione a lunga distanza la richiesta di un ritorno proprio a quegli usi (il moto di su connottu "il conosciuto" del 1868 a Nuoro contro la decisione del Consiglio Comunale di ripartire i terreni che ancora erano di uso comune).

L'editto delle Chiudende lascia ad ogni modo indenne il sistema feudale e si fa strada la consapevolezza che la nascita di una diffusa proprietà privata non sarà possibile all'interno della giurisdizione feudale. La soluzione che viene proposta è quella di separare i due problemi: da una parte l'esercizio da parte dei baroni feudali della giurisdizione sui feudi e dall'altra la questione della rendita dei terreni attraverso l'imposizione di tributi. Ai feudatari è garantito un risarcimento che viene ottenuto attraverso la procedura del riscatto. Viene creata una Commissione regia incaricata di stabilire le rendite effettive di ogni feudo mentre i villaggi non vengono ammessi alle trattative tra il feudatario e la delegazione. Il primo sarà il Marchese d'Arcais. Tutta l'operazione verrà realizzata tra il 1838 e il 1840. In realtà si largheggiò molto nella definizione della rendita da attribuire a molti feudi, così da rendere indolore e conveniente per i feudatari vendere i propri feudi. Le somme pagate ai feudatari vennero addebitate ai Comuni.

Da quel momento in poi le terre in Sardegna vennero suddivise in private, Comunali e demaniali; i terreni comunali sarebbero stati dati a coloro che nel Comune non possedevano terreni con l'obbligo di coltivarli; le terre demaniali dovevano essere assegnati alle comunità e a coloro che ne avessero fatta richiesta tramite asta pubblica.
Nel 1807 nascono le prefetture. L'obbiettivo che si voleva conseguire con l'istituzione delle prefetture era di dare un ordine al caos esistente nell'amministrazione delle giustizia che era frantumata in molteplici sedi di giudizio (Reale Governazione, R. Udienza, Curie baronali, vari tribunali specifici). Con l'istituzione delle Prefetture il territorio isolano viene suddiviso in 15 province.

Ad ogni prefetto spetta: l'imposizione e la riscossione dei tributi, le attività economiche, il controllo di legittimità delle delibere delle amministrazioni comunali.
Legato alla formazione delle prefetture è il riordino e l'unificazione della legislazione attraverso le Leggi civili e criminali del Regno di Sardegna (Codice Feliciano) del 1827, che si sostituisce alla Carta de Logu. Non si tratta di nuove leggi ma un riordino di quelle esistenti. Tra le modifiche importanti l'abolizione del guidatico e dell'incarica.

 

Carlo Felice

Vittorio Emanuele I abdicò in favore di Carlo Felice nel 1821 e col nuovo sovrano soffia anche una nuova aria riformistica. Sintomatico è l'interesse di Carlo Felice alla viabilità, infatti nel 1821 affidata all'ingegner Carbonazzi la realizzazione di una rete stradale che collegasse Cagliari a Sassari. Si è ancora in una fase in cui l'isola vive un esistenza parallela a quella degli Stati di Terraferma, e ciò sarebbe testimoniato dal fatto che praticamente nessuna eco dei moti piemontesi del 1821 giunse nell'isola. Erano moti di tipo costituzionale e in Sardegna esisteva già una costituzione.

Successivo all'abolizione del feudalesimo con una Carta Reale del 26 febbraio 1839 veniva stabilita l'alienazione delle terre ademprivili (cioè le terre ex feudali sulle quali gravavano ancora gli usi collettivi o ademprivi delle popolazioni) e la suddivisione tra gli abitanti delle terre che erano invece riconosciute come proprie dai comuni. Da un lato stavano coloro che ambivano ad accrescere le proprietà private inglobando i terreni e definivano consuetudini arcaiche quelle degli ademprivi (tra questi anche Carlo cattaneo che però vedeva la crescita dell'agricoltura in una dimensione che era quella della Lombardia). La problematica degli ademprivi si trascinò attraverso i decenni giungendo ad un capitolo importante negli anni '60 in particolare nel 1863 quando una legge assegnava 200.000 ettari di terreni ademprivile come garanzia di un prestito per opere di carattere infrastrutturale, in particolare gli ettari di terreno vennero ceduti ad una società londinese che si era impegnata nella costruzione di una parte delle linee ferroviarie sarde.

Nel 1865 venne approvata la legge che aboliva tutti i diritti ademprivili e i terreni venivano assegnati ai Comuni con l'obbligo di venderli entro tre anni. Il vero obbiettivo era quello di costringere i Comuni a vendere, anche sottocosto, visto che le procedure da attivare per la vendita erano molto complesse e i Comuni non potevano avere i mezzi per gestirle.
Per giungere ad una completa unificazione con il Piemonte occorre il momento storico adatto, che si presenterà alla fine degli anni '40 in pieno risorgimento con la diffusione degli ideali patriottici e liberali e l'eco delle riforme che il Piemonte stava attuando nei territori di Terraferma.